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Da quando venne addomesticato, circa 5000 anni fa, il cavallo è stato adoperato dall'uomo, per la maggior parte di questo tempo, senza ferri.

Markus Junkehnann, nel terzo volume della sua opera "Die Reiter Roms" (I Cavalieri di Roma) scrive: "Le grandi distanze percorse dalle cavallerie degli Sciti, dei Persiani, dei Macedoni e dei Cartaginesi durante le loro campagne militari (basti pensare alle battaglie di Alessandro Magno) dimostrano che la cavalleria, anche senza ferri, è capace di grandi imprese."

L'antichità greco-romana ignora l'uso del ferro inchiodato al piede. L'ipposandalo, tenuto al piede da lacci, ha funzione protettiva nei casi di lesioni agli zoccoli ed è da considerarsi come uno strumento della veterinaria di uso limitato a scopi terapeutici. Non permetteva al cavallo altra andatura se non il passo.

Le dimensioni dell'arena del Circo sulla quale i cavalli correvano era di circa 650x220 metri. La "spina", che la divideva in senso longitudinale, separando le due piste, era lunga 233 metri. Le iniziali dieci corse, che venivano disputate ad ogni riunione, divennero 24 con Caligola e passarono da 30 a 48 sotto i Flavi. Ogni corsa comprendeva sette giri. Ciò significa che nel migliore dei casi i cavalli percorrevano una distanza di 3.200 metri. Questa, peraltro, è una ipotesi di perfezione impossibile da attuarsi. In realtà un buon auriga riusciva a percorrere una distanza che si avvicinava ai 4.500 metri. Un auriga meno bravo, costretto sempre all'esterno della pista, percorreva anche 6.000 metri.

Le più importanti corse in piano moderne si svolgono su distanze che variano dai 2000 metri del Kentucky Derby ai 3.200 metri della Melbourne Cup. Siamo ben lontani, quindi, dalle distanze sulle quali erano costretti a correre i cavalli in epoca romana. Le corse moderne, inoltre, si svolgono su un fondo migliore.

E' chiaro che per partecipare a queste corse i cavalli, allora come oggi, dovevano essere preparati e allenati. Venivano sottoposti, perciò, a un notevole uso e logorio.

 

 

Zecca di Sicilia (350-345 a.C.)

Tetradramma - Siracusa Museo Archeologico Nazionale

Pelagonio (IV secolo d.C.), nella sua Ars Veterinaria, dedica diversi capitoli alle cure delle varie patologie e lesioni dei cavalli, specialmente di quelli adoperati nelle corse. Parla di spalla, di gambe, di schiena, di strappi muscolari, di garretti e di tendiniti. Di problemi dei piedi non dice quasi nulla, a meno che, come nel capitolo XV, non parli delle cure necessarie a un piede (zoccolo) che è stato lesionato da una ruota. Ciò dimostra che il problema dei piedi di per sé non era un problema. E' chiaro che un piede forte e resistente è caratteristica fondamentale di un buon cavallo, sia esso destinato alle corse che alla guerra o al trasporto. Senofonte suggerisce il metodo per mantenere solidi i piedi dei cavalli e così fa anche Columella, ma né loro né altri scrittori come Catone o Varrone, che trattano del cavallo, sembrano essere preoccupati dalla fragilità come caratteristica del piede.

 

La grandissima popolarità della quale godevano in tutto l'impero le corse nel Circo giustifica la quantità di ippodromi non solo costruiti a Roma, che da sola ne contava cinque, ma ad Antiochia, ad Alessandria, a Cesarea, a Bisanzio, in Nord Africa, in Spagna e in Portogallo. Il solo Nord Africa contava più di due dozzine di circhi. In Spagna e in Portogallo ce n'erano 21.

Una iscrizione della metà del secondo secolo d.C. (ILS, 5287) riassume la carriera dell'auriga Diocle, che, nell'arco di 24 anni, accumulò 1.462 vittorie su 4.257 corse. Dei vari cavalli che adoperò nove ne fece vincitori di cento corse ciascuno e uno di duecento. Un suo contemporaneo, Aulus Teres, ha elencato 42 cavalli vincitori sulle mura dell'Adrianeo (Castel Sant'Angelo). Ci dice pure che ha portato due cavalli, Callidromos e Hilarus, rispettivamente a 100 e a 1000 vittorie.

Pelagonio scrive che i migliori cavalli partecipavano ancora alle corse a 20 anni di età (Ars Vet. I).

Oltre a questo uso "sportivo" del cavallo, c'era, naturalmente , l'utilizzo ben maggiore che se ne faceva in guerra e nel lavoro dei campi. Le gesta della cavalleria romana o persiana o sassanide, numidica ecc. dovrebbero essere note, almeno per sentito dire, anche a chi è meno colto. E' inutile soffermarcisi in questo momento. E' utile, invece, ricordare il Cursus Publicus , cioè il servizio di corrieri istituito da Augusto, che si svolgeva su una rete stradale estesasi a 85.000 chilometri al tempo di Diocleziano. A distanze stabilite erano collocate le "poste" per il cambio dei cavalli. Erano di due tipi: le mansiones, distanziate tra loro da 32 a 48 chilometri, che offrivano cavalli freschi e pernottamento, e le mutationes, distanziate tra loro da 12 a 20 chilometri, che servivano solo per il cambio dei cavalli.

La nostra arroganza occidentale ci fa spesso dimenticare le altre grandi civiltà che fanno parte della storia dell'uomo, come quella della Cina, che ha fatto anch'essa grandissimo uso del cavallo nella sua evoluzione storica. E' alla Cina, infatti, che si devono tre delle più importanti invenzioni di carattere equestre: la staffa, il pettorale e il collare.

Il sistema di bardatura cinese fu il primo a utilizzare la forza del cavallo senza ostacolarne la respirazione, grazie al collare rigido che poggiava sulle spalle dell'animale e permise lo sviluppo di veicoli a stanghe trainati da cavalli di gran lunga più progrediti ed efficienti di quelli occidentali. Ci vollero, infatti, molti secoli prima che il sistema di bardatura a pettorale e collare rigido arrivasse in Europa. L'invenzione della staffa fu altrettanto importante: per la prima volta il cavaliere aveva un appoggio sicuro per combattere. Dai ritrovamenti archeologici risulta che le prime staffe erano in uso in Cina intorno al 322 d.C. In occidente la staffa non è in uso prima del VII secolo. La civiltà cinese, come quella del mondo occidentale antico, non sente la necessità di "inventare" la ferratura.

Sembra quasi di udire il rimbombo della terra percossa dagli zoccoli sferrati di milioni e milioni di cavalli che per migliaia di anni hanno trasportato l'uomo in guerra, in caccia, in gare, in giochi, e quant'altro. Se l'utilizzo del cavallo fosse stato così condizionato da un piede soggetto a facile logorio, come oggi una mentalità ignorante e conservatrice vorrebbe far credere, è veramente strano che il mondo antico non abbia cercato la soluzione di un così grave problema. La verità è che il problema non c'era e il piede del cavallo non presentava altro cruccio oltre a quello di una normale, periodica cura e manutenzione.

Quando nell'Alto Medioevo il ferro chiodato fu introdotto, la sua adozione avvenne con estrema lentezza, il che dimostra che non fu visto come l'invenzione da tutti attesa o la panacea dei problemi dei piedi dei cavalli. Venne dapprima applicato ai piedi dei cavalli dei "cavalieri" e solo a quelli che "il signore" adoperava in guerra. Una teoria sostiene che ciò avvenne perché una lunga stabulazione nel castello in condizioni restrittive e non naturali impediva al piede del cavallo dei nobili di funzionare in maniera ottimale. Ne conseguì un sistematico deterioramento del piede in tutta l'Europa feudale. Altri aggiungono che l'utilità del ferro stava nel fatto che i chiodi, che lo reggevano al piede del cavallo da battaglia, sporgevano in fuori, nella parte anteriore dello zoccolo, come dei rostri, creando così ulteriori danni al nemico investito. Un'altra teoria sostiene che la scoperta della cavalleria come grande forza d'urto grazie all'uso della staffa, che permetteva appoggio e stabilità in sella, fu causa di una grande richiesta di cavalli. La grande produzione fu fatta a scapito della selezione e si dovettero usare cavalli con difetti morfologici, che probabilmente l'antichità avrebbe scartato, ai quali i fabbri medievali cercarono di porre rimedio. Non c'è alcuna prova, inoltre, che vi siano stati allevamenti selettivi per il mercato "cavalleresco" prima del 1341.

Sta di fatto che i cavalli dei nobili furono i primi ad essere ferrati e non è difficile capire come, nel tempo, questa usanza, per scimmiottamento, sia diventata una moda, che nessuno si è preso la briga di contestare fino al diciannovesimo secolo. Nel 1809, infatti, il dottor Bracy Clark, considerato come una delle maggiori autorità di tutti i tempi nel campo della cura del piede del cavallo (vedi ciò che scrive di lui il dottor Doug Butler, una colonna della scienza veterinaria moderna, nella sua opera Principles of Horseshoing) scrisse:

"Per oltre mille anni l'attuale pratica di ferrare i cavalli è stata seguita senza che la gente si rendesse conto che in essa potesse esservi qualcosa di sbagliato e di dannoso, anche se correttamente eseguita. Sebbene incidenti e inequivocabili manifestazioni di sofferenza l'accompagnassero di continuo e fossero ben visibili agli occhi di chiunque, nessuno volle correre il rischio di riflettere su un argomento che appariva così astruso. Se qualcuno si azzardava a farlo si esponeva a dissenso e insolenze. I danni che da essa derivano sono sempre stati ignorati o negati e si è cercato di vincerli in ogni modo tranne che in quello giusto e naturale: quello, cioè, di rimuovere la causa. La quale causa è stata ugualmente incompresa sia dai più semplici che dai più istruiti. (Clark, Bracy: Podophtora. Demonstration of a Pernicious Defect in the Principle of the Common shoe. Royal Veterinary College Library, London, 1829, p.2) "

Carlo Faillace

Il prof. Carlo Faillace, cofondatore ed ispiratore di BHI, ci ha lasciato nel 2011. Questa pagina, da lui scritta e non modificata successivamente, vuole essere un omaggio alla immensa cultura ed alla limpida dedizione di un vero amico dei cavalli.

 


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